Il Giorno dei giorni è un tragico spartiacque che segna il destino di una comunità intera e cambia il corso del tempo, amalgamandolo ai resti delle persone, delle strutture, fondendolo ad un dolore impietrito, silenzioso, che Bea prova a raccontare dal suo letto d’ospedale, quando da quel 18 maggio del 1927 sono trascorsi ormai molti anni e forse, la ragazzina che è ancora dentro di lei, seppur prigioniera di un corpo disfunzionale, ha trovato le forze per ricordare.
John Smolens, che è indubbiamente un narratore di razza – nominato per il premio Pulitzer e selezionato con Margine di fuoco dal National Book Award come miglior libro dell’anno – decide di partire da lontano, allargando il campo della narrazione ai mesi che precedettero quella che passò alla storia come la strage di Bath. Tutto inizia con una domanda: Che cos’è un criminale? Andrew Kehoe, proprietario terriero e fattore benestante, lo chiede a Jed, il più piccolo nel gruppo degli amici di Bea. Jed ha dodici anni, Bea quattordici, Alma quasi quindici e Warren, il più grande, va per i diciotto, vivono in una cittadina rurale del Michigan, è il 1927, e la corrente elettrica un lusso inimmaginabile, quasi un’opera di fantascienza. Il tempo è scandito dal lavoro nei campi, dalle cavalcate a cavallo per percorrere le lunghe distanze tra un’abitazione e un’altra, dall’accudimento degli animali, e per i ragazzi di Bath, dalle lezioni scolastiche. Ogni tanto una deviazione nel bosco diventa l’inaspettata occasione per i primi baci, i primi scambi, i primi tremiti. La più grande minaccia pensabile si identifica nei senzatetto, gli hobo, figure ai margini su cui si posano le maldicenze degli operosi cittadini di Bath. Niente lascia presagire quello che sarebbe accaduto in un mattino come un altro, in quella comunità perbene, dove il male mai avrebbe preso le sembianze di un vicino, un amico, un conoscente. E invece, a quella domanda iniziale, Jed risponderà con l’impotente orrore di chi ha camminato a fianco del Crimine, senza avere mai un sospetto.
Il dramma che ha sconvolto Bath lascia strascichi e tracce di sé ovunque; la cronaca dell’epoca è piena di articoli, ricostruzioni, commemorazioni, e molti dei personaggi a cui Smolens dà voce sono realmente esistiti: dal dirigente scolastico alla maestra elementare. Ogni dettaglio è utile per catalizzare l’attenzione sulla precarietà e sulla rapidità con cui vicende così tragiche, per quanto imputabili a colpevoli identificati e sicuri, sfuggano alla comprensione umana e corrodano il tempo che di quell’umanità è la dimensione costante. Il triste destino di Bath è quello di essere uno strappo nel cuore, lo squarcio che rovina per sempre, lo sfregio insanabile che deturpa la mente del superstite e dell’osservatore: la certezza che il colpevole di quella strage fosse nel pieno possesso delle sue facoltà mentali e che nessuno se ne fosse accorto.
L’immortalità che certi luoghi e certe storie si conquistano lascia sbigottiti per l’impossibilità concettuale di reggere una verità così banale e così assurda, una realtà così sbagliata da non trovare posto nel fluire cosciente di chi l’apprende e di essere, paradossalmente, l’inconscio sospetto che ci attanaglia quando abbassiamo la guardia.
«Non è quello che sai, ma quello che credi. Ci piace pensare di poter cogliere la verità. C’è un luogo tra la verità e la non verità, un luogo in cui dimoriamo, alimentati da fame e sete, paura e desiderio. Un luogo in cui il clima è perennemente sgradevole. Troppa pioggia, non abbastanza pioggia»
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