“L’altro posto” pubblicato da Marsilio è il nuovo romanzo di John Lindqvist, autore pluriacclamato e personalmente molto apprezzato per “Lasciami entrare” e “Musica dalla spiaggia del paradiso”, due romanzi corposi che lasciavano soddisfatto il lettore amante del genere horror e della buona scrittura; potevo perciò lasciarmi sfuggire quest’ultimo suo lavoro?
Sicuramente no, e difatti, nel giro di un paio di giorni “L’altro posto” è stato il mio fedele, inquietante, compagno di lettura e, in qualche occasione mi sono davvero venuti i brividi dal terrore.
La storia oscilla tra autobiografia e narrazione fantastica: il giovane Lindqvist a diciannove anni aspirava a fare il mago, non lo scrittore, e si esercitava in continuazione con numeri di abilità illusionistica nel suo appartamento fatiscente nei sobborghi di Stoccolma. Sopravvivere non fu impresa facile, ma caotica e, in una penosa occasione, gli valse l’arresto per furto in un grande magazzino della città.
La reclusione gli fece perdere il famigerato treno che passa una volta sola e, quasi a volersi liberare di un tormento interiore, iniziò così il suo percorso di scrittura, con un racconto che ben camuffa, sotto le mentite spoglie della fantasia, antichi ricordi e che nasconde un posto dove in realtà è stato da ragazzino, un posto diverso, una dimensione parallela, dove gli elementi si confondono come in una pittura di Bosh sottoposta al calore, persone e cose che si fondono insieme e colano, dagli interstizi dei muri, dei soffitti, della realtà.
Un altrove, un altro posto, che interferisce, seppur invisibile ai molti, con i sentimenti delle persone e con la loro mente.
Una dimensione forse incubo, forse miraggio di felicità, da nascondere e custodire gelosamente nel luogo più sicuro del mondo, quello dove nessuno andrebbe a cercare il surreale, l’orrorifico, il mostruoso: un posto come la lavanderia del condominio alla Rosemary’s Baby (rumori strani, personaggi ambigui, percezioni particolari)
dove Lindqvist abita.
Tra coppie che si comportano come se non sapessero di essere morte e skinheads acculturati e fin quasi posati, tra vecchie signore a cui sembra sempre la vigilia di Natale e uomini distrutti dal dolore di una perdita incolmabile, il giovane John si deve destreggiare, prima diffidente, poi quasi ipnotizzato, arrivando a percepire qualcosa dentro quella lavanderia, qualcosa che gli chiede un pegno di sangue.
L’autore costruisce un palazzo che poggia su piani che slittano continuamente dal reale all’irreale e, con bruschi accadimenti e precipizi narrativi, il passaggio da un mondo all’altro non è indolore, neanche sulla carta, ma arriva brusco e spinge la pressione atmosferica alle stelle.
Per concludere, Lindqvist è un mago, forse non il tipo di mago che credeva di essere, ma è un mago della parola e la usa, più che può, per generare vortici temporali, per creare atmosfere incombenti, minacciose e seducenti nel pericolo, in una Stoccolma che diventa scenario apocalittico senza neppure sapere di esserlo.