La vita felice – Elena Varvello

I fari di un vecchio furgone arrugginito squarciano, appuntiti, il fitto del bosco. A bordo Ettore Furenti, un trentasettenne padre di famiglia che da quando ha perso il lavoro non è più stato bene neppure con la testa. Mentre girovagava, preda delle sue ossessioni al limite e – forse oltre – dell’allucinazione, ha dato uno passaggio ad una ragazza e poi ha fatto qualcosa che non doveva fare. Noi che leggiamo ne siamo consapevoli fin dalle prime, feroci, brevi righe che ci proiettano dentro ad uno strano, incalzante incubo di mezza estate. A raccontare questa storia trent’anni dopo è Elia Furenti, il figlio di Ettore che, all’epoca degli eventi, ha sedici anni e vive con i genitori a Ponte, una ristretta, cigolante comunità boschiva. Sono gli anni Settanta, Tex è il fumetto più letto in Italia, le spiagge sono libere e affollate e Elia, che arrossisce tra sé rievocando le tremolanti immagini di un topless assolato, rifugge la folla e si arrampica fino ad un posto che nessuno conosce, dove il torrente salta, improvviso, in una profonda vasca naturale. È lì che, un giorno d’agosto, Elia porta Stefano Trabuio, suo problematico coetaneo appena tornato in paese con una madre chiaccheratissima che presto popolerà le fantasie erotiche di Elia.

Su due binari paralleli e per mezzo di una narrazione a piani alternati viaggiano le vite di Elia che, inconsapevole di cosa facesse quel padre dissociato, scopre l’amicizia e la passione per la prima volta e di Ettore, morto vivente che si trascina mezzo nudo per casa, tra lattine di birra accartocciate e cicche di sigarette annegate nei bicchieri, fautore di un disagio domestico inspiegabile e sempre giustificato da una moglie che continua a non vederlo, nonostante i ritardi inspiegabili, il fango su scarpe e vestiti, i graffi sulle braccia. Noi che leggiamo quei binari li percorriamo alla cieca, fidandoci dell’autrice che ci ha dato tutti gli elementi per temere il peggio: sappiamo che un bambino è stato rinvenuto morto nel bosco, nudo, incaprettato, senza che sia mai stato trovato un colpevole, e nel frattempo seguiamo, allibiti, i deliri di Ettore che ha appena adescato la ragazza sul ciglio della strada precipitandola – precipitandoci – gradualmente dentro all’invincibile angoscia di chi sa che è giunta la fine.

Da questo groviglio elettrico che impregna l’aria di ferro e gas di scarico, concepito tra gli scorci dei capannoni abbandonati e delle corde per il bucato tirate nei prati, Elena Varvello fa scaturire una storia di formazione sui generis, costruita in mezzo al delirio di un padre psicotico e di tutte le fragilità di cui è fatto l’amore. Un amore che più che elevare chiude nell’angolo. Eppure, tra le pieghe di queste vite così complicate – pensavamo forse che potessero essere semplici? – una linea risalta, ed è quella che chiamano “la linea della vita”, ognuno di noi ce l’ha, impressa sul palmo della mano sinistra e forse Elia, dopo trent’anni, per crederci ha bisogno di ricucire quell’assillante strappo nel passato.