Il bell’esordio di Jing-Jing Lee affronta gli anni difficili dell’occupazione Giapponese a Singapore da un’angolazione insolita, quella di una delle tante vittime della guerra, una donna che viene strappata, come mille altre, alla sua famiglia per finire nella cella di un casotto blindato a fare la prostituta per l’esercito invasore.
Le chiamavano “donne di conforto” e venivano trattate come oggetti da usare fino allo sfinimento. Perdere la propria sanità mentale poteva condurre alla morte come alla salvezza, l’esistenza era appesa al filo del caso, la speranza di un’amicizia dentro quelle tragiche mura diventava quasi un miraggio, la resistenza si faceva muta e priva di appigli, la disperazione più totale scaturiva dall’inutilità del dibattimento, delle lacrime e delle urla, e un perenne stato di shock incombeva dentro ai ripostigli in cui queste povere anime dovevano accogliere i loro aguzzini.
È Wang-Di, sequestrata dal suo villaggio appena donna, a sviscerare il dolore di un ego percosso, umiliato, svergognato, addirittura privato del proprio nome, attraverso il racconto di quegli anni terribili passati alla mercé di un’inaudita, bestiale ferocia umana.
“Potrei essere un fantasma, pensai. Una di quelle anime ostinate con cui la gente si rassegna a convivere, tenendosela in casa, purché se ne stiano al posto loro”
Kevin, invece, seconda voce narrante, fa da contrappunto a Wang-Di. È un tredicenne che partendo dalle lettere che la nonna in punto di morte gli lascia, tenta di riesumare un passato nascosto mettendo in scena, oltre alla ricostruzione di quel periodo di guerra, un mistero intrecciato nel profondo alla sorte di Wang-Di.
“Se ti metti a cercare dove non devi, scopri delle cose che non sei ancora pronto a sapere”
Il percorso narrativo si gioca dunque su tre livelli, in un’alternanza di voci – la vecchia Wang-Di, il piccolo Kevin, la giovane Wang-Di, e di tempi, presente e passato per sempre uniti dal filo incorruttibile della storia, e compone un romanzo fatto di affondi e pause, un meccanismo perfetto per portare a casa il carico emotivo di una storia tanto cruda quanto vera, la fotografia di un’epoca così vicina da non aver mai svoltato l’angolo.

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