Sedici parole – Nava Ebrahimi

Sedici parole e gli spazi in cui Oriente e Occidente si congiungono.

Si può, in sedici parole, rappresentare un intero universo? E si può farlo al proprio esordio letterario? Nava Ebrahimi ci risponde col suo primo romanzo e tutto quello che ne riceviamo ci spiazza, a partire dalla sua penna, così matura e garbata. Il romanzo si apre col ritratto di una signora attempata, forse un po’ inopportuna così pesantemente truccata, e indiscutibilmente testarda, la nonna di Mona, colta a rivangare un glorioso passato davanti ad uno spettacolo di varietà in televisione. Poche pagine dopo è già il tempo del ritorno, perché a Mona, che per vivere fa la ghostwriter a Colonia e che diversi anni prima si è lasciata alle spalle l’Iran dove è nata, viene comunicata la notizia della morte della nonna e lei e la madre prendono subito un aereo per Teheran. Da qui il pretesto per un racconto che Ebrahimi sviluppa concentricamente, chiudendo le circonferenze delle storie in cui ci cala, solo alla fine, dopo averle dispiegate nella loro ordinarietà sconosciuta, pervasa da un coraggio silente, invisibile a chi lo ignora.

L’Iran allora si svela, paese dimenticato, con i suoi esuli dal bagaglio in eccesso e i frutti propizi da spaccare con un rito, terra di pretendenti e pantomime familiari in cui gli aneddoti sconci, le dicerie e le tradizioni si tramandano senza posa, contrasto tra l’oro della luce a dicembre e le sentenze di morte, posto della carità tra poveri e luogo in cui sentirsi costretti pur davanti alla sterminata distesa celeste, casa, anche quando casa è un concetto scomodo. L’Iran, con le sue città millenarie ricavate dall’argilla, gli amori clandestini infilati in un tempo sospeso, condizionato dalla falsa morale, zeppo di moltitudini che si contaminano vocianti agli angoli delle strade, l‘Iran dalle scarpe di vernice troppo rigide per essere indossate, dove un televisore può sfamare una famiglia intera e la poesia non fa in tempo ad esprimersi che è già stracciata, l’Iran è spogliato con una naturalezza che disarma, Oriente che divora, Oriente che abbaglia.

Destreggiandosi tra un passato che riaffiora poco per volta e un presente che la vorrebbe di nuovo lontana, Ebrahimi intreccia due mondi agli antipodi e li concilia attraverso un rispetto che le è innato. La sua posizione, mai giudicante, diventa storia e racconta, come fosse cronaca, una vita che con molta probabilità è proprio la sua – Mona, ghostwriter di autobiografie e Ebrahimi, ghostwriter di se stessa. Combattuta tra la malia di una spontaneità giocata all’ombra del silenzio e la sicurezza di un mondo che mai penetra gli abissi personali, garante di una distanza mentale, Mona incarna allo stesso tempo il cedimento e la fermezza, il segreto che schiudendosi lentamente si trasforma in verità e la necessità di tirare il fiato a temperature meno roventi, diventando il punto di congiunzione tra due universi che insieme compongono un quadro di inestimabile valore culturale.

Ebrahimi dunque, col suo esordio, riassume in sé la delicatezza della poesia di Farrokhzad e la cupezza dei cieli di Böll e le sedici parole che sceglie – una per ogni capitolo – fanno da cardine alle porte che l’autrice spalanca su un mondo così distante da sembrare un miraggio e così vicino da attrarre invincibilmente. 

 

 

 

“Avevo solo una pallida idea dell’amore, ma mi piaceva la prospettiva di poter essere anch’io, in un lontano futuro, un’innamorata senza numero che spunta dal nulla, viene desiderata e ammirata per poi sparire di nuovo nel nulla. Un’innamorata senza numero, che ogni giorno va per la sua strada, da una parte all’altra del ponte, e non saprà mai quali sentimenti susciti in un personaggio quasi invisibile che sta lì seduto senza potersi muovere”