Siamo ai margini della vita in questo lembo del cimitero di Paulstadt, piccola cittadina austriaca di provincia. Un vecchio siede sulla stessa panca, ogni giorno, vicino ad una betulla e ascolta. Non ha bisogno di chiudere gli occhi per immaginare, la vista offuscata dalla miopia, la sua condizione così al limite lo pone in una condizione privilegiata: poter accogliere le voci dei morti che arrivano, spontanee come un fenomeno naturale o forse inventate, mescolate ai ricordi di quando a proferirle erano anime vive, confuse ai loro volti, perché dei volti non rimane nulla, ma rimane molto del resto.
La città dei vivi, messa sullo sfondo come una sensazione, diventa la perfetta dimensione su cui Seethaler fa sorgere la sua piccola Spoon River, una città dei morti popolosa che si fa lacrime negli uccelli sui rami scheletrici degli alberi e si scompatta come una zolla di terra mal rivoltata.
Non è poesia in versi liberi qui, ma prosa raffinata che si destreggia, legandole tra loro a doppio filo, tra ventinove voci diverse, alcune più sincopate, rappresentate solo da una frase, da un’incisione lapidaria come il marmo delle tombe, altre più allungate, distese dentro un tempo che non ha bisogno di definizioni, non più, ma che è diventato chiarissimo, senza bisogno di essere misurato.
La parte più intima dell’esistenza umana Seethaler la fa raccontare ai suoi defunti che non parlano mai della morte, o di cosa sia, ma ricordano di questa vita gli strappi nel cielo da cui erompe una luce accecante, e i buchi profondi in cui si cade prima o poi tutti.
Parlano a noi, trasportate dall’aria, le voci della fioraia dimenticata – ormai morta – in un retro bottega, del reverendo incendiario impazzito di fervore, della centenaria sublimata da essere umano in universo, del bambino problematico capace di eguagliare il vento, di coppie tragiche separate dalla diversità ed infine unite da una familiarità invincibile.
“Il tempo sembrava diventato irrilevante, e insieme troppo prezioso per contenerlo in banali minuti, ore, giorni.[…] Un giorno si svegliò e sollevò la testa. “Chi sei?” mi chiese con voce chiara. La fissai. Mi pareva una domanda mostruosa. “Non lo so” risposi”
La vita è stata un sogno, disperato, scosso, contenuto in qualcos’altro, oppure è stata tutta attimi, ricordi, istantanea di una bellezza definibile solo a distanza.
Secondo lui soltanto a quel modo, con le spalle al mondo, in tutta calma e senza distrazioni, era possibile pensare un pensiero fino in fondo”
Di questo parlano le anime che riescono a trovare una voce in mezzo alle radici, alla terra, al giorno dimenticato: di quel che sono state e di quel che sono ancora.
“Io sono Henriette. Solo Henriette. Il cognome l’ho dato via. Col tempo si dà via tutto. Vogliamo stringerci la mano?”

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