Dybek e la letteratura che trasfigura la metropoli
Polacco-americano di seconda generazione, Stuart Dybek è uno degli scrittori contemporanei che stilisticamente più si avvicinano alla letteratura di Eudora Welty. Come per la grande scrittrice del South America, anche in Dybek il propagarsi della narrazione è intensivo, e le atmosfere che suggerisce hanno la conturbante incisività dei quadri di Hopper, in cui la luce fa esistere quel che illumina (o quel che l’autore vuole che esista) in un fluire temporale allungato, sospeso sulle cose come l’idea da cui prendono vita. La realtà urbana è costruita dai margini, percorsa al passo di un ragazzo dei sobborghi, evanescente nelle melodie che sfuggono alle condutture delle case e si riversano negli appartamenti come malinconiche esternazioni di eleganza, e si fa spiritata e sinistra dentro a leggende di sirene metropolitane, martiri custodite da blocchi di ghiaccio che ne conservano, inalterata, la purezza. La vita di Chicago è ferma nel riflesso delle vetrate di un pub illuminato dall’interno, ed ha le sembianze di una solitaria donna di passaggio che, fintamente ingenua, si sistema i vestiti come fosse allo specchio di casa, seduce tutti e se ne va.
L’inquadratura in Dibek oscilla dall’oggettuale – la collezione di tappi di un bambino che diventa un santuario in miniatura – al concettuale quando, dalle finestre dei grattacieli dove lavorano o dormono per una notte, gli amanti finalmente si svelano, componenti spirituali di una città che vive, muore, soffre, scopre, si innamora ininterrottamente. La potente trasfigurazione che l’autore mette in opera sta nella naturalezza di questi passaggi, dal particolare, indagato in chiave soggettiva, richiamo di ricordi e vite passate, all’ideale, che si sovrappone alla scena di partenza, già mutata nel momento in cui la guardiamo, imprendibile come un treno sotterraneo che sfreccia e si fa cogliere solo per un istante da noi che stiamo sulla banchina ad aspettare.
“Volevo un biglietto fuori dalla mia vita, volevo correre su quel treno i cui finestrini filavano su un panorama di covoni di grano su campi invernali”
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