Tutta la verità, ma presa di taglio, per parafrasare Ernesto Franco nella seconda di copertina che a sua volta interpreta Emily Dickinson – “Di’ tutta la verità ma dilla obliqua”-: questo in breve il concetto che incarnano i personaggi di Elena Varvello. La loro è una famiglia sconquassata da un dolore che si annuncia lento per poi esplodere senza freni, con deflagrazioni diverse per intensità e forma. Sara, Pietro, Amelia e Angela sono i tragici volti che interpretano una vicenda fuggevole quanto una leggenda: il destino imprevedibile e impossibile di un figlio, di un fratello che non ha nome. Nel romanzo, lui, è solo un ragazzo.
Come si potrebbe in effetti affibbiare un nome ad uno stato d’animo totalizzante, ad un’angoscia che permane e condiziona ogni pensiero ed ogni gesto? Il ragazzo, quell’ombra incappucciata che tiene in scacco le coscienze di tutti, diventa proiezione di sé, delle proprie mancanze, delle proprie debolezze, financo della propria umanità, perché ci sono cose che non si possono immaginare e bisognerebbe farsene una ragione. Ma nessuno sembra avere la capacità di rassegnarsi a quel che è accaduto. La sofferenza primigenia è decentrata, così come lo è il punto di vista sulla circostanza originaria. Un medesimo trauma ha mille possibili declinazioni: allucinate, egoiste, autolesive. Chi sopravvive è scevro di eloquenza e razionalità, primitiva creatura dei boschi, si fa grumo di dolore e urla al mondo il proprio struggimento.
E Cave, paese sospeso, luogo opaco dove realtà e irrealtà si toccano appena, cavità dimenticata da dio nel fitto di un bosco da cui non si esce, è lo scenario perfetto su cui far muovere i protagonisti di una tragedia contemporanea, personaggi che non hanno scampo se non quello di ammettere a se stessi la più inaccettabile delle verità.

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