Quanto manca per Babilonia? – Jennifer Johnston

Inizia dalla fine la storia di Alexander, giovane ufficiale dell’esercito Britannico in stanza nelle Fiandre. È il 1914, la Prima guerra mondiale è arrivata, repentina, come una malattia incurabile di cui non si sospettava l’esistenza. Alexander aspetta l’esecuzione della sua sentenza di morte, non ha rimpianti, non sente il bisogno di convertirsi – ognuno deve essere libero di morire come vuole – e neppure ha scritto un’ultima volta ai genitori, inconsistenti presenze lontane. A fargli compagnia nei suoi ultimi istanti è solo il ricordo di chi è stato e di quello che è successo. Parte così Jennifer Johnston, lasciando in sospeso l’epilogo, servendosi di un meccanismo che le permette di risolvere una vicenda di amicizia, amore e ribellione nel giro di poche pagine fitte di intimità e lotta per un’esistenza degna di essere vissuta.

Il ricordo di Alexander va alle campagne dublinesi dove ha vissuto i primi anni della sua vita, rampollo di una famiglia benestante, affidato da una madre algida e narcisista alle cure di un istitutore, isolato dal tessuto sociale senza l’appoggio di un padre succube della moglie. L’incontro casuale con Jeremiah, coetaneo di umili origini, presenza silvana, eco delle sere d’Irlanda, unito alla terra, al granito delle case, alla fiera indole dei cavalli che accudisce, cambierà per sempre il corso delle loro vite. Duramente osteggiati nella loro amicizia, portati ad arruolarsi in una guerra che Alec non capisce e che Jerry prende su di sé come una missione, i due ragazzi finiscono per ritrovarsi nello stesso reggimento e pur con le imposte differenze di grado, veglieranno l’uno sull’altro.

Il romanzo si gioca nei toni dell’intimità più profonda, spinto a restituire un senso di appartenenza invincibile, che né la differente estrazione sociale né la guerra né la morte riusciranno a spezzare. Il mondo si è ammalato, la natura è il tetro teatro di una battaglia che non può essere vinta, il massacro incombe per mesi, come un’idea oscena, fino ad incarnarsi nel grido straziante di un compagno morente, da qualche parte, oltre le trincee, a pochi giorni dall’attacco. Cosa rimane degli uomini in mezzo allo strazio? Poco o niente quando a comandare è il pregiudizio e la società per cui si darebbe la vita è più spietata del nemico appena intravisto. La vera mattanza si compie entro le linee amiche, ad opera di uomini che l’umanità l’hanno smarrita alla ricerca del potere, infilati a loro insaputa in una irrefrenabile macchina della morte.

Eppure nelle taverne, in quelle notti di guerra, e nelle tende umide, a fasciarsi le gambe e i piedi martoriati, di umanità ce n’è tanta, e corre tutta sull’aria di un reel irlandese, libera dalle paure, indomita e bellissima.

“Le sere sono così belle. Penso sempre che l’Irlanda dovrebbe essere ribattezzata l’Isola delle Sere. Non credi? Il momento ideale per morire. Morirò di sera, vedrai”