Algido, disturbante, psicotico.
Noi felici pochi di Patrizio Bati (pseudonimo che richiama American Psyco) è, nonostante tutto – per gli argomenti trattati ricorda le vicende del Circeo, o l’apparente bella vita di Pietro Maso -, un romanzo incessante che inghiotte il lettore nel buio di notti folli di bravate. È la storia dell’eccesso e del facile accesso a persone, eventi e cose.
La superficialità del protagonista viene magistralmente delineata e mantenuta sino alla fine del libro. Lo stesso stile di scrittura parla di psicosi, nell’immediatezza dei concetti che rimanda ai irrefrenabili impulsi e nell’ossessivo ripetersi di mantra e spiegazioni enciclopediche chiuse dentro parentesi quadra. La violenza è inquadrata nell’impossibilità di filtrare le emozioni e di governare il proprio io – del resto perché un giovane rampollo di buona famiglia dovrebbe resistere alla soddisfazione di un desiderio quando è stato abituato a fare esattamente il contrario?
Nella successione di crimini che Patrizio Bati, il protagonista, mette a segno con la sua banda di amici, fratelli, inseparabili, entra incuneandosi in più punti la vicenda che ha dato inizio al romanzo, un incidente che metterà a dura prova ogni loro legame e sottoporrà il lettore allo stupore nella presa di coscienza che davvero esiste la banalità del male e che a commetterla è sempre un essere umano.
“Mi avviai. Da solo. Lentamente. Barcollando.
Nei miei occhi continuava a riapparire quella curva. La curva che ci aveva risucchiato fuori strada. La curva appostata tra i cespugli, in attesa della nostra macchina, per masticarla a morte”
