Holt, un’ultima volta per sempre.
Inizia dalla fine l’ultimo, attesissimo, romanzo di Kent Haruf. L’ultima storia che ci riporta a Holt, nelle pianure del Colorado e di un’America rurale che tanto abbiamo imparato ad amare negli anni. L’abbiamo aspettato con trepidazione ed è arrivato, dopo la posticipazione del lancio in ragione di una pandemia che ha spiazzato il mondo intero, come una benedizione alla metà di giugno. La strada di casa, secondo lavoro in ordine cronologico di Haruf – precede dunque tutta la Trilogia della pianura – è davvero un piccolo miracolo, ma già ce lo immaginavamo. Haruf, che mentre lavora a questo romanzo è ancora agli esordi della sua carriera di scrittore, si esprime con la stessa efficacia che gli riconosciamo anche nei testi più maturi, forte di una scrittura che aggancia fin dalle prime battute per nettezza e rapidità. Il suo stile inconfondibile, segnato da autori come Carver, Hemingway e Faulkner, è privo di manierismi e, senza perdersi in giri vorticosi o salti temporali, punta dritto all’obiettivo nella resa precisa della situazione nel momento in cui la stessa accade.
Sono due i personaggi su cui Haruf incentra la storia, ed entrambi sono concepiti con una grandiosità, nel bene e nel male, che lascia spazio alle sfumature più controverse dell’animo umano. Ad aprire le danze è Jack Burdette, che dopo otto anni di latitanza, riappare ad Holt come uno spettro devastato. L’autore anticipa subito il fatto che costituirà il mordente dell’intero svolgersi dell’azione: sappiamo che Burdette l’ha fatta grossa, ma non sappiamo con esattezza di cosa si tratti. Immaginiamo le cose più orribili, sostenuti dalla reazione violenta degli abitanti della cittadina alla notizia del suo arrivo. Burdette è un peso ingombrante per la cittadina e di quel peso ha le fattezze, deformato dal passare degli anni e da una maledizione che l’ha convertito in qualcos’altro, diventa il simbolo di una caccia alle streghe che non si era arrestata con la sua fuga. Per equilibrare il racconto, Haruf pone sull’altro piatto della bilancia Jessie Burdette, incrollabile dentro ad una dignità che sfugge alla comprensione e che si esprimerà in tutta la sua tragica potenza distruttiva. Jessie è la moglie di Jack ed è anche la sua controparte speculare, in entrambi un elemento spicca su tutti gli altri – in Jack la bassezza, in Jessie l’orgoglio – ma da solo è insufficiente a completarli e anzi, non li determinerebbe così tanto se non ci fossero in uno inconsapevoli sprazzi di umanità e nell’altra drammatici risvolti a renderla, per certi versi, disumana.
La strada di casa perciò si gioca tutta sulla complessità letteraria dei suoi due protagonisti, con uno scambio di ruolo simmetrico: Jack, nato e cresciuto ad Holt, diventa presto un fattore estraneo alla comunità e Jessie, che ad Holt ci è stata portata, assume nel giro di poche pagine, corrispondenti ad un graduale ambientamento del personaggio, un’identità autoctona. Sullo sfondo e poi neanche tanto, a giudicare da come Holt entra sottopelle, è la provincia americana con i suoi spazi distesi, dilungati nelle praterie disseminate di campi in cui ancora affiorano i resti di un tempo passato, immalinconiti nelle taverne e nei diner anni Sessanta, illuminati dai lampioni che accendono le loro luci calde nelle ore sospese del tardo pomeriggio. E la gente, voci che si affacciano con diversi gradi di prepotenza – lo sceriffo scorbutico, lo squilibrato amministratore della cooperativa agricola, l’ingenua ragazza di paese, il cronista, nonché voce narrante, del giornale di Holt -, va a comporre il coro senza cui il ritorno a casa non sarebbe lo stesso.
Improntato al noir e dispiegato ampiamente attraverso dialoghi perfetti, La strada di casa non fa sconti e senza alcun preavviso, navigando a velocità sostenuta ma costante, grazie a quell’incedere calmo di cui Haruf è così capace, ci precipita in pozzi profondi per mostrare il lato oscuro e possibile della vita comunitaria e di una regola invisibile, registrando, senza paura di ammetterla, la disgrazia così come la bellezza, imprescindibili ingranaggi di uno spazio che tutti chiamiamo vita.

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