La bambina che amava troppo i fiammiferi è un libro che fa incantesimi – decidete voi di che tipo -, è un libro che si cala repentino nei bassifondi più melmosi e oscuri di un tempo fuori dal tempo, un Medioevo immaginario, e che sfrutta un geniale meccanismo narrativo usando una lingua vicina al volgare che, fin dalla prima riga, proietta il lettore in un tempo straniero.
A raccontare questa storia in prima persona è un ragazzino: di lui sappiamo che sta scrivendo delle memorie perché si possano forse conservare e, a fatica, decifrando una narrazione incredibile, fatta di una prosa ostica e oscura, masticata, mozzicata, spezzettata, ancestrale e antica, inizia anche il viaggio del lettore: un cammino disseminato di indizi e asperità dove anche le parole prendono la forma delle cose di cui portano il nome.
“Mio fratello e io abbiamo dovuto prendere l’universo in mano una mattina poco prima dell’alba perché papà era spirato all’improvviso”
Ecco la prima informazione che viene consegnata al lettore: il motivo scatenante, quello che spinge il protagonista e il suo brutale fratello a valicare i confini incerti della tetra tenuta in cui hanno vissuto fino a quel momento, è l’improvvisa morte del padre, un padre brutale, violento, un carceriere, un essere abbietto. Eppure devono trovare il modo di raggiungere il paese vicino e di seppellirlo.
Durante il viaggio non mancano però poetiche incursioni di fate, cavalieri, dame, spiriti, così come non vengono risparmiate trucide descrizioni corporee o di pulsioni sessuali, o pagine da cui fuoriescono l’odore della pioggia e tutte le cose celate nei libri e, un pezzo alla volta, nell’indefinitezza di tempo e luogo, nella sospensione fisica degli oggetti, dove gli specchi rimandano le voci degli antenati e le immagini di un passato annebbiato riprendono forme quasi umane, i raccapriccianti segreti che circondano la famiglia del piccolo protagonista, riemergono e rivelano uno scenario degno del più geniale e raffinato sceneggiatore di thriller.
“E delle facce cominciavano a comparire nello specchio convalescente. Un’accozzaglia di volti, con il tumulto che pian piano cresceva. E gonne a non finire, e parrucche, e cavalieri in coda di rondine, magari, e la ressa cominciava a traboccare dallo specchio nella sala, che si riempiva e ne era invasa”
Una volta iniziata, non ci si può staccare da questa lettura, non ci si può sottrarre alla follia; l’orrore sembra non conoscere confini e il lettore brancola, correndo, tra gli stretti budelli dell’inquietudine fino all’ultima riga dell’ultima pagina, in totale balia di uno scrittore differente da molti, che non si preoccupa della linearità, ma concede piccoli pezzi di storia un poco alla volta e ogni piccolo pezzo è un boccone così speziato da lasciare storditi per qualche attimo.
Questo è un libro per chi ama restare senza fiato, senza parole e senza pensieri, è per chi ama i misteri fitti, le tenebre e la poesia che si celano nei loro orditi, è un libro che capovolge e che, prima di essere letto, chiede di bendarsi gli occhi, è una genialissima fiaba cupa che defibrilla anche la fantasia più tenue e la spinge verso il vero colpo di scena finale.
(Un suggerimento che mi è stato dato e che a mia volta giro al magnifico lettore che vorrà intraprendere La bambina che amava troppo i fiammiferi è di non leggere la quarta di copertina e di iniziare subito con la storia, per non perdersi neanche una briciola di quei bellissimi istanti di sorpresa che Gaétan Soucy ha voluto riservargli)
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