Ultimo giro – Graham Swift

Parlare di libri belli quando ce li troviamo davanti, quando abbiamo la fortuna di incrociarli e di lasciare che attraversino la nostra strada, parlare di libri belli per me è un’urgenza. Per svariati motivi, uno dei quali è che l’arte spinge alla condivisione e un altro è che l’arte è uno dei più alti complementi umani, perché ci trasmette appartenenza, ci consola.

Perciò devo raccontarvi di ULTIMO GIRO, che fece vincere il Man Booker Prize a Graham Swift nel 1996.

Il verbo GIRARE mi fa pensare al movimento rotatorio e alla necessità di un perno attorno a cui il movimento si sviluppa. In questo romanzo il perno è costituito da un’assenza.

Jack, l’amico di una vita, il macellaio del paese, è morto. E ha lasciato tutti di stucco. Niente più bevute al pub, niente più battute, solo un po’ di cenere dentro ad un barattolo.
A bordo di una vecchia Cadillac i suoi amici di una vita attraversano il paese per soddisfarne l’ultimo desiderio: disperderne i resti in mare.

È in questo viaggio on the road che Switf decide di concentrare la vita e la scompone, capitolo dopo capitolo, nelle diverse voci degli amici, della moglie, dei figli.

Sono tutti centri decentrati, parlano in prima persona, elaborano, grazie al lutto, la vita, l’amore, la follia, il fallimento, la bugia, la fedeltà.

C’è sempre una limpidezza che si intravede nelle loro parole, ed è quella bontà primigenia a cui la specie umana teoricamente dovrebbe sottostare, eppure, per riuscire a scorgerla sul fondo, bisogna perdersi nella variegata gamma di possibilità che vivere comporta.
Se allora il nostro sguardo è sempre teso ad un ideale che ci sostiene, è pur vero che non possiamo sottrarci agli scossoni, ai drammi, alle piccole, pure felicità, ai ricordi. E non possiamo sottrarci perché ne siamo avvinti, sedotti.

Puntiamo all’orizzonte, ma chissà cosa cerchiamo veramente, forse è il fatto di non saperlo a motivarci, la continua idea di una ricerca, l’ammissione di una certa, congestionante propensione allo sbaglio che ci sorprende e ci riduce a dei surrogati di noi stessi e che, nonostante tutto, anche su quelle che a noi sembrano imbarcazioni inadeguate, ci fa desiderare
di attraversare il mare.