L’altra mattina ho iniziato un romanzo, l’esordio di Ida Amlesú per la Nottetempo edizioni, Perdutamente, si intitola, e perdutamente, dopo aver letto solo qualche riga, mi ci sono buttata.
Quando sono riemersa era notte.
La storia è divisa in tre atti, nel primo, la protagonista, che non rivela mai il suo nome, inizia a colpirti con frammenti della sua infanzia, ricordi, sogni, sensazioni, pezzi di pellicola, episodi significativi, centrali, le frasi e le parole che usa sono scatti che, rapidi, raggiungono le sinapsi e le immagini che suggeriscono arrivano dritte, senza fare anticamera salgono subito alla mente.
Ci sono un padre inconsistente come l’aria, una madre che i piedi per terra li tiene, sì, ma solo se addosso ha delle pantofole, un primo amore, grande e crudele, gelido, seducente e sfuggente come il vento e lei, la ragazza dal nome “quasi breve” che riempie tutti questi spazi di sé, li permea, li interpreta.
Nel secondo atto arriva il viaggio, e arriva Mosca, e con essa l’amore ritrovato, Volodja, che adesso non scappa e che però nemmeno resta, e loro, che sono gli attori di questo teatro delle ombre, recitano nascosti dietro i vetri opachi di un appartamento di periferia e i piani della realtà e del sogno iniziano a intrecciarsi, e a fondersi, per scivolare poi, insieme, in una dimensione quasi onirica; a far da sfondo Pietroburgo, ad aprire le danze, il Diavolo e, a concluderle, le lacrime dell’amore, la valigia, la partenza.
Il terzo atto si apre sulle rive del Volga, e coincide con la rivelazione, ogni istante è compreso, ogni immagine ha un senso, finalmente… ad ascoltare e parlare solo i pesci, le alghe e le cupole dorate di una chiesa.
Ida Amlesú è stata, per me, una vera scoperta, non si può resistere alla forza della sua scrittura.
Un romanzo che è più di un viaggio. Non vedo l’ora che ne scriva un altro.
“…senza ragione mi venne da pensare a come sarebbero stati felici gli amici quando fossi tornata, mentre io sarei stata sempre lí, un po’ distante, un po’ in disparte, a osservarli oltre il muro della memoria, come oltre un velo di tele di ragno – anche in quel caso separata da un vetro, a fare bolle nel mio acquario personale, a osservare la gente e a esserne osservata, ad ascoltare gli altri commentare la mia vita senza mai esserne veramente partecipe…”
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