Si chiama Fortuna ed è una delle navi della flotta di Plinio il vecchio impegnate nel soccorso di quegli abitanti di Pompei che, nei drammatici momenti dell’eruzione, cercarono la salvezza fuggendo verso il mare.
Plinio è sceso a terra – le fonti antiche ci diranno poi quale sia stata la sua sorte -, e al comando della flotta è rimasto Lucio, che vede solo da un occhio.
Con l’aiuto di una pietruzza azzurra, Lucio riesce ad amplificare la vista e i sensi ed è il solo capace di orientarsi tra le nebbie cineree che impregnano il cielo e infestano le acque.
Nessuno a quel tempo poteva immaginare che il verdissimo monte ai piedi del quale sorgeva una della città più belle del mondo antico, avrebbe cambiato improvvisamente il suo volto, spogliandosi di ogni forma di vita, rovesciando sulla terra un incandescente inferno di morte e dolore.
In mezzo alla cenere, improvvisamente invecchiato, marchiato a fuoco dai detriti ustionanti che piovono come frecce, Lucio si rivolge a Pompei, rievoca la casa in cui è nato, gli istanti di grazia strappati alla vita, la dolcezza della madre – che a Pompei è rimasta – gli amori e le amicizie.
Ricorda di come ha piegato a suo favore la parca di mezzo, Lachesi, quella che tesse il filo della vita umana, obbligandola a invertire il suo destino di invalido per farne l’impavido condottiero che è diventato.
Valeria Parrella ci delizia con un romanzo breve ambientato in uno dei momenti più misteriosi e affascinanti della storia dell’umanità tutta, sorprendendoci con luminosissime incursioni nelle ragioni del dolore e della passione, ricordandoci le tendenze e le storture che ci accomunano agli uomini di ieri, e sempre rimarcando il grande potere che l’uomo stringe tra le sue mani: quello di attraversare la paura e creare i suoi stessi dei.
«Noi siamo esattamente la nostra sorte, e non è che ce la possiamo togliere di dosso quando non ci sta più bene come la maschera alla fine della tragedia. Nella vita il teatro è sempre aperto»

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