Nel 1996 ero una ragazzina che studiava, con profitto e poco divertimento, al liceo linguistico della striminzita città in cui i miei genitori avevano deciso di farmi nascere e crescere.
Non avevo amicizie particolari, sperimentavo in quel periodo una sorta di isolamento esistenziale che mi avrebbe accompagnata per un bel pezzo. L’inadeguatezza di cui mi sentivo responsabile era diventata una zavorra insostenibile e non passava giorno senza che mi chiedessi come sarei stata da grande, se davvero avrei riso della mia adolescenza così come dicevano tutti: «È solo una fase, vedrai che la rimpiangerai».
Ma poi sono cresciuta, e quegli anni di transizione non hanno mai raggiunto nei miei ricordi alcuna vetta della felicità.
Crescere è il vero orrore. La letteratura – e qui Peano – ce lo dice di continuo, nei più svariati e succulenti modi – se avete letto It, Stagioni diverse o Le vergini suicide vi sarà subito chiaro quel che intendo – e io con la letteratura mi trovo molto spesso d’accordo.
Morsi di Marco Peano chiarisce perfettamente questo concetto, imbastendo e sviluppando una storia a metà tra le atmosfere vintage di Stranger Things e l’orrore surreale di Lovecraft, il tutto condito da una dose extra di horror pulp, scene così inaspettatamente macabre da attingere a quelle fantasie ricorrenti che cerchiamo con forza di respingere.
Anche Sonia nel 1996 è solo una ragazzina, e i suoi genitori l’hanno mandata a passare le vacanze di Natale da nonna Ada, in una casa scricchiolante e zeppa di cianfrusaglie e mobili antichi.
È strana nonna Ada, sembra che custodisca dei segreti pericolosi, a cui nessuno può accedere. Sonia non si sente tranquilla quando si trova in sua compagnia e quell’inverno la situazione è ancora più inquietante, perché da poco, in una sfortunata classe della sua scuola, la professoressa d’italiano ha avuto un incidente. Un fatto orribile, di cui però nessuno parla volentieri. A complicare le cose è scesa una nevicata colossale, che ha ricoperto ogni cosa, cristallizzandola, eliminando perfino il suono dall’aria.
È così, che nel bel mezzo della storia, Peano ci rovescia tutti dentro ad un mondo parallelo, a cui fanno eco le temperature ansiogene di Silent Hill, La cosa e pure un po’di Shining.
In questa dimensione niente è innocuo, e il solo essere umano con cui Sonia può interagire e fare squadra – per quanto la loro coppia sia sbilenca – è Teo, il classico ragazzino emarginato, trasandato, tutto preso dal cibo e dagli animali che accudisce da quando era in fasce.
Sono loro due che vediamo avanzare nella neve alta, in mezzo a quel bianco alienante che ha sommerso il paesino montano da cui bisogna, in qualche modo, andarsene.
Nessuna strumentazione può aiutarli nell’orientamento, e non c’è bagaglio strategico, perché non sanno – nessuno può mai saperlo – quello che li aspetta.
Con Morsi Marco Peano mette in scena senza sentimentalismi, ma con molto rispetto per l’età che vuole rappresentare, la metafora dell’essere umano che, per crescere, necessariamente deve confrontarsi con l’ignoto, dove per ignoto non si intende uno spazio infinito traboccante di promesse, ma una realtà controversa, raccapricciante, un mondo sconosciuto che sommerge e terrorizza, un passaggio, insomma, che può farci letteralmente a brandelli.

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