Quando rinviene Farley è per terra, incastrato tra i sanitari del bagno di casa. Non ricorda come si sia cacciato in quella situazione – anche se, da ottantenne sgangherato, non gli riesce difficile immaginarlo – e ora non sa come tirarsene fuori.
Impossibile rialzarsi autonomamente. La sola via d’uscita potrebbe presentarsi all’alba.
Riverso e con il viso premuto sulle mattonelle fredde del pavimento, Farley si trova a riavvolgere lentamente il nastro della sua vita.
Affiorano, anno dopo anno, dentro ad un brillante meccanismo di montaggio al contrario, le perdite, le peregrinazioni, gli affetti, gli amori, i tradimenti e le delusioni di Farley e, indissolubilmente legata a Farley, emerge Dublino, seducente e ombrosa, percorsa di vita, umida di alcool e pioggia.
Christine Dwyer Hickey, una delle migliori penne irlandesi di questi anni, incide nell’intimo di un uomo, indagandone gli stati d’animo e le fragilità, e, allo stesso tempo, restituisce il quadro di una città complessa, mai uguale a se stessa eppure immortale, mossa tanto dalla rabbia quanto dalla poesia.
È l’ordinarietà di Farley a renderlo unico. E la letteratura, quella buona, si occupa soprattutto di umanità. In questo senso FARLEY è un libro profondamente umano, difficile da dimenticare.
Se amate la buona letteratura e le ineguagliabili, socchiuse atmosfere d’Irlanda, allora Farley vi piacerà molto, e resterà con voi.

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