FACILE PREDA – John D. MacDonald

Esiste il meccanismo narrativo perfetto? Una macchina studiata per mantenere in continua tensione l’immaginario filo narrativo su cui autore e lettore telepaticamente danzano? Teoricamente possiamo immaginare che sia così. Ben diversa e variegata è invece la pratica che, seppur sottintenda la tensione come prerogativa essenziale di ogni tipo di storia, deve dimostrarsi all’altezza delle aspettative più esigenti di chi si avvicina ad un thriller.

Inizio subito con quello che per me è un assioma: John D. MacDonald è autore di grande talento. Agli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso iniziò a sfornare una serie di romanzi tecnicamente perfetti che fecero la storia della letteratura di quel periodo e si proiettarono anche nella nostra epoca, con grandi successi di pubblico e importanti trasposizioni cinematografiche – se vi parlo di Cape Fear (Il promontorio della paura), ho la certezza che vi stiate giustamente orientando. L’orrore di cui MacDonald ci mette a parte in FACILE PREDA – edito da Mattioli 1885 nella bella traduzione del sempre formidabile Nicola Manuppelli – nasce in una giornata qualunque, tra gente qualunque, all’apparenza ordinaria. Jerry Jamison torna a casa e trova la bellissima e disforica moglie – per la quale ha rinunciato ai suoi sogni di gioventù – nuovamente ubriaca. Nel momento in cui la storia inizia, è dunque evidente che un punto di rottura è già stato superato e che i protagonisti di MacDonald sono in preda alla nevrosi, pericolosamente in bilico tra sanità e follia.

Di MacDonald apprezzo l’apparente semplicità con cui affronta i momenti decisivi, i punti in cui la storia prende una piega inaspettata. Il pericolo di cui si fa portavoce, infatti, non si fa scrupoli e suona direttamente alla porta: ha le sembianze di un vecchio amico, più precisamente un ex-commilitone di Jamison, Vince, che si presenta con una proposta molto allettante. Dal momento in cui Jerry prende in considerazione la possibilità di concludere questo affare sporco gli eventi precipitano con una rapidità strabiliante.

È dunque tra le crepe di una crisi emotiva profonda, che affonda le radici nel rancore per una vita che non ripaga e si riflette nel grigiore di un lavoro frustrante, una moglie narcisista e infedele e  lo sbigottimento di un’esistenza che va sprecata, che lo spettro seducente dei soldi facili si insinua e inizia ad espandersi. Una situazione che può benissimo essere applicata ad una gran parte di umanità, ed è mia ferma convinzione – inscalfibile fino ad ora – che la paura peggiore nasca proprio dalla concreta possibilità che qualcosa di simile a quello che stiamo leggendo possa capitare anche a noi. Su questa vicinanza tra noi e i suoi protagonisti, MacDonald gioca tutte le sue carte migliori.

Il thriller di MacDonald smargina nel noir che smargina nell’hard boiled che si sofferma per alcuni incredibili attimi su scene talmente macabre e dal senso dell’orrore così profondo che continuano a proiettare la loro ombra su tutta la vicenda, infestandola e condizionando la reazione emotiva di chi ne segue gli sviluppi, sempre più sinistri, sempre più psicotici.

Spesso, per definire un’opera pienamente riuscita sia dal punto di vista della forma che del contenuto si usano termini inflazionati come capolavoro o gioiello, termini purtroppo abusati che però, nella loro semplicità rendono bene l’idea ma, allo stesso tempo, generano diffidenza in chi vi si accosta. Quello che posso dire io, senza utilizzare termini semplicistici, ma con grande onestà, su questo romanzo è che è un gran bel romanzo e che è un romanzo che non vi aspettereste di leggere.

Credetemi, MacDonald arriva dagli anni Cinquanta direttamente tra le nostre mani per farci sobbalzare, alla faccia di effetti speciali e trame distopiche: la paura è un sentimento primitivo ed inestinguibile che rimane in attesa, tra le pieghe di una vita ordinaria, pronta a balzare sulla prima, facile preda che le capiterà a tiro.