La vera storia di Martia Basile – Maurizio Ponticello

Il romanzo di Maurizio Ponticello prende le sue mosse da un poema in versi del XVII secolo attribuito ad un rapsodo di quell’epoca, tal Giovanni de la Carriola – così detto perché probabilmente costretto da un’invalidità a spostarsi con l’aiuto di quella che doveva essere una sedia a rotelle ante litteram. Nei secoli Giovanni fu censurato, prima da Charles Dickens e poi da Benedetto Croce che ritenevano il suo componimento di scarsa qualità – robaccia, più prosaicamente – non solo per lo stile, così popolare e vivido, ma anche per la storia che narrava: quella di una giovane e bellissima donna ritenuta colpevole di viricidio e perciò decollata sulla piazza pubblica in una notte di maggio del 1603.

Al netto delle polemiche linguistiche e letterarie, chi ha la fortuna di leggere il poema nella sua versione integrale ne resta ammaliato, e diventa preda di una fascinazione dolorosa, come quella che accompagna le eroine tragiche di ogni epoca e cultura. Martia Basile però è esistita veramente e le precise testimonianze della Congrega dei Bianchi della Giustizia – i cui membri avevano il triste compito di consolare i condannati a morte prima della loro esecuzione – ne danno prova certa. Da queste carte si ricavano elementi importanti, come l’età di Martia in punto di morte – aveva appena vent’anni – e le generalità dello sbirro e della domestica che furono giudicati complici nel delitto di don Muzio Guarneri, marito di Martia, e perciò giustiziati quella stessa notte, insieme a lei.

Nel raccontare questa storia l’autore si è fatto carico sia della sua drammaticità che della sua vitalità e, dopo un minuzioso lavoro di ricerca, ce le ha tramandate, immerse in una Napoli seicentesca brulicante di voci. Quel che ne esce è una perfetta e raffinata sintesi tra ricostruzione storica e finzione restaurativa – la lingua napoletana conservata nella sua musicalità è resa fruibile anche al lettore meno avvezzo alla parlata – volta a colmare i buchi che interrompono le vicende di Marzia per lasciare spazio ad un’immaginazione calcolata. In questa Napoli colorata, colta, percorsa in lungo e in largo da stimoli vitali, divisa tra l’elementare istinto umano alla spensieratezza e il bigottismo delle prime inquisizioni, Martia nasce, a soli quattordici anni conosce la violenza di un matrimonio d’interesse con un uomo senza scrupoli, e in solitudine attraversa le fasi cruciali della vita di una donna, per poi mutare  in una primitiva, indomabile forza della natura.

Se è vero che lo stelo di Martia fu brutalmente reciso, e la sventurata non fece in tempo a sbocciare che dovette subito fare i conti con la disperazione e il tradimento, la sua esistenza fu però toccata anche da momenti di pura grazia che a lei resero così cara la vita e a noi, che li ripercorriamo, rendono così amara la sua infelice sorte. Ora davvero sembra di averlo raggiunto, il brusio di quella folla che pianse per le vicende di una creatura di rara grazia, colpevole di aver provato, nonostante tutto, ad essere felice, e di essere riuscita, dalle profondità in cui l’uomo e il tempo la gettarono, ad elevare la sua voce perché arrivasse fino a noi.

 

«Perché il patibolo e il letto nuziale sono chiamati talamo nel medesimo modo? Forse per il motivo che su entrambi muore qualcosa? Oppure perché sul talamo coniugale s’incontra per la prima volta il proprio uomo, e sul patibolo la morte? Ambedue in qualche modo ti portano via»