In un presente parallelo l’umanità è afflitta da una pestilenza misteriosa. Non si sa esattamente come si trasmetta – sembrerebbe dalle secrezioni dei topi, ma poco importa – l’unica certezza è l’abominio collaterale a cui la sospensione delle libertà individuali ha ridotto il mondo.
Non aspettiamoci mezze misure, non ci sono: l’orlo del precipizio non è mai esistito e non si fa in tempo ad assimilare il primo concetto che la mente inorridisce risputando l’esagerazione della bestialità: sembra tutto troppo in questo resoconto carcerario, il peso da sostenere smisurato per chiunque, la descrizione degli abusi così cruda da far impallidire perfino De Sade.
Insistendo più sulle conseguenze che sulle cause, Luppino ci scaraventa nel peggiore degli inferni possibili, impegnando la sua scrittura al servizio di un sinistro rituale fatto di parole scelte appositamente per la loro incisività, di ossessive ripetizioni, di violenti parossismi, di impietosi capovolgimenti di ruolo; costringendo il lettore dentro ad una realtà sigillata, una distopia appena abbozzata e per questo ancora più credibile.
La psicosi continua che affligge i personaggi si gioca su un agito iperbolico che altera, esagera e disgusta. La spirale di violenza da cui non si può uscire aumenta quando l’io narrante – che credevamo vittima di torture come tanti altri disgraziati rinchiusi nel Centro di Detenzione di Buenos Aires – rivela la sua ambiguità, rendendosi complice delle efferatezze del Milite – l’aguzzino a cui è affidato il comando.
Tra camere a tenuta stagna, stanze d’impacchettamento dei cadaveri, reparti di mattanza e macellazione, l’inumano alza la testa e si presenta, distorto come un raccapricciante spettacolo di sadici burattini, ululante di spietatezza, lucido di sangue.
La vera pestilenza è la totale perdita di umanità, uno smantellamento così corrosivo da aver disintegrato anche il più intimo concetto di grazia. E Le brigate è l’affresco della peggior festa da girone infernale che una mente umana potesse immaginare.

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