I tanti volti del vuoto esistenziale
Tutto accade in pochi istanti. La giornata è tranquilla e abitudinaria come può esserlo in una qualsiasi cittadina di provincia del South Dakota. Dopo la scuola, Jonah torna a casa e per strada si sofferma a pensare a quel piccolo presente in cui, anche se un po’ sghemba, la sua vita appena iniziata sembra filare liscia. A casa lo aspetta il nonno, si prende cura di lui durante le assenze della madre, ma quel pomeriggio succede l’imprevedibile e il cane di famiglia, quel cucciolo che l’ha visto crescere, per paura, istinto o chissà cosa, si rivolta al padroncino e lo sfigura terribilmente. Come una maschera che improvvisa cala sulla scena, da quel momento per Jonah le cose accadono in un’altra dimensione, quella in cui il tempo ordinario è annullato da quello mentale e ogni sforzo di acquistare un’identità è vanificato da quel che poteva essere e non è stato.
Jonah smette di esistere nel presente effettivo e lo soppianta con una serie di bugie, personalissimi castelli di carta, unica via per tirare avanti.
Da questa principale narrazione se ne sviluppano altre, tutte correlate tra di loro, ed è così che vengono a galla, cronologicamente sfalsate, le storie di Nora, solitaria adolescente alle prese con una gravidanza indesiderata, di Troy, a cui i genitori mai hanno taciuto di averlo adottato, e di Loomis che vive con una nonna burbera e scostante perché suo padre è finito in galera e la mamma, una tossicodipendente, è sparita.
C’è un evidente punto di rottura che collega ogni storia: la sparizione di Loomis. La nonna lo perde di vista mentre era in giardino, il bambino sembra essersi volatilizzato e col passare del tempo è chiaro che non si tratta di una bravata. Partono allora le ricerche.
Ma, alla fine, tutto il romanzo è una ricerca, inconsapevole forse, del proprio posto all’interno del mondo, della distanza di significato che esiste tra quel che sappiamo di noi stessi e quel che crediamo di sapere e molto spesso creiamo, nella speranza – narcisistica – che questo sia di qualche valore per gli altri.
In questo suo ultimo lavoro, Dan Chaon tiene le redini di molteplici storie e le ricostruisce andando e venendo nel tempo, alleggerendo il carico emotivo di una vicenda per inserirsi nella successiva e poi riprendere la trama da dove l’aveva lasciata, finezza tecnica questa che gli permette di affrontare e di rendere fruibile il corposo tema della solitudine, dell’abbandono, dell’impenetrabile silenzio che caratterizza quelle vite che sono state strappate da un destino caotico ad un’esistenza usuale.
Scavando nel dolore grezzo, quello che neppure chi lo prova riesce a definire, forse perché neppure ha la consapevolezza di provarlo, l’autore restituisce la vena pura dello smarrimento emotivo davanti al vuoto esistenziale che si para innanzi ai protagonisti – sfortunati, è vero, ma chi può dirsi al riparo dalla sfortuna? – inglobandoli in un dirompente disagio capace di portarli ad oltrepassare i confini della ragione.
«Per la prima volta in molti anni Judy si rende conto di come appare il mondo dalla prospettiva di un bambino piccolo. La sua vastità, in cui un vicolo qualunque può assomigliare a un tunnel misterioso, le recinzioni e i cancelli sul retro delle case assumono un’aria antica, abbandonata»
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