Il maratoneta è un romanzo a perdifiato. La capacità che ha Goldman di risolvere in poche pagine una fitta serie di eventi, uno più imprevisto dell’altro, è leggendaria e dal romanzo, nel 1976, è stato tratto un film con un giovanissimo Dustin Hoffman a vestire i panni di Babe, lo strambo protagonista che, pur non sapendo nulla di servizi segreti, complotti e torture, si ritrova solo a fronteggiare la morte.
Babe, che davvero ci immaginiamo coi lineamenti di Hoffman – fisico minuto da podista ben allenato, capello lungo un po’ trascurato da intellettuale – è uno storico in procinto di laurearsi, un po’ complessato da quando suo padre – uno stimato accademico – si è suicidato che lui era in casa, nella stanza accanto, senza che potesse fare nulla.
Così brillante nello studio, nella realtà è il classico perdente che nessuno si fila. Non ha una ragazza e i suoi coetanei lo coinvolgono solo per molestarlo. Per una serie di incalcolabili eventi, che l’autore combina genialmente, tanto da non lasciar mai indovinare la piega che prenderanno, la sua placida e polverosa vita da topo di biblioteca incrocia bruscamente quella di alcuni pericolosi criminali nazisti.
I personaggi che si susseguono e portano avanti la storia sono tutti, in qualche modo, compromessi: nessuno di loro è limpido, la loro ambiguità è così sfacciata da sembrare congenita, e spesso il limite della moralità è oltrepassato con disinvoltura. Dello stesso Babe, figura naïf così pura nella sua ingenuità, alla fine scopriamo di sapere molto poco.
Tra femmes fatales, amori improbabili, rese dei conti finali, patti di sangue e torture disumane, la storia conduce ad un epilogo inaspettato passando per l’azzeccata metafora della vita vista come una prova di resistenza, una maratona in cui solo chi è preparato a superare se stesso taglia finalmente il traguardo.
«Mi fa troppo male, sto bruciando qui dentro» e allora Nurmi si arrabbiò: «Certo che stai bruciando dentro, devi bruciare dentro e devi continuare a correre, e passerai bruciando attraverso la barriera del dolore, io l’ho fatto, per questo ero il corridore più grande»

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