Il Diavolo in Francia – Lion Feuchtwanger

Nel 1940 Lion Feuchtwanger non era solo uno degli scrittori più letti in Europa, era anche uno dei maggiori intellettuali antifascisti che la Germania aveva l’onore di vantare tra le sue fila. Di estrazione borghese, si avviò giovanissimo alla scrittura, e, oltre a fondare la rivista letteraria Der Spiegel, scrisse Erfolg (Il successo), testo ispirato all’ascesa al potere di Hitler che maggiormente gli valse l’esilio e che ben presto il Terzo Reich provvide a incenerire gettandolo nel rogo dei libri vietati.

Sorpreso in Tunisia dalla Prima Guerra Mondiale, Feuchtwanger, ebbe già occasione di sperimentare i campi d’internamento, da cui venne presto liberato per essere rimpatriato a Berlino. Con l’avvento del nuovo conflitto mondiale, però, le sue origini ebree e il suo presente di agitatore intellettuale, gli costarono l’esilio, da apolide, in Francia dove, insieme alla moglie, si stabilì in una villa sul mare a Sanary, il bianco delle intonacature del Sud della Francia a stagliarsi contro un poggio di ulivi e il blu profondo del mare all’orizzonte.

Una sera del 1940, alla metà di maggio, la radio francese diramò un comunicato ufficiale: tutti i cittadini di nazionalità tedesca, nonché gli apolidi nati in Germania e domiciliati nell’area di Parigi, tra i diciassette e i cinquantacinque anni, dovevano presentarsi agli uffici addetti per essere internati. Da quell’attimo lo sgomento: come dirlo alla moglie? Come affrontare gli ultimi sprazzi di libertà prima di essere considerato potenziale nemico di un paese di cui aveva intessuto le lodi, scagliandosi apertamente contro il totalitarismo nazista?

Il Diavolo in Francia affronta i mesi durissimi in cui Feuchtwanger viene trasferito al campo d’internamento di Les Milles, ricavato dentro ad una ex-fornace di mattoni, insieme ad altri apolidi come lui, ex-membri della legione straniera, austriaci e cecoslovacchi. Abitiuato ad un’esistenza tutto sommato confortevole, attorniato dai molti libri, e dalla cultura sotto ogni forma, amico intimo di Heinrich Mann e Bertold Brecht, si ritrova spogliato di tutto, nudo nella sua sostanza, forte solo di un convincimento che ha la stessa consistenza di una premonizione – ho ancora quattordici libri da scrivere, non posso morire ora, Dio o il destino lo impediranno -, a trascinarsi nella polvere dei mattoni che circonda ogni cosa e inquina la mente. Scaraventati in una condizione di disumana precarietà, smarriti dentro ad un limbo, in totale balia della burocrazia francese, gli internati di Les Milles conoscono il Diavolo, quello che non si cura di loro e ne procrastina la sorte, sperso nell’ottundimento generale di un sistema  – quello del j’en foutisme – efficacissimo nell’arruolare menti e braccia al suo servizio ma non altrettanto solerte nel rendere loro giustizia. La situazione di surreale orrore che Feuchtwanger si trova a vivere è un atipico riflesso dell’inferno sulla terra, un tragico riverbero che tiene a mantenere intatte le distinzioni sociali anche all’interno del campo: chi ha una posizione o qualche avere se la passa meglio di molti altri, può acquistare merce di contrabbando e, per quel che vale, prendere parte a riunioni con gli ufficiali preposti al comando per trattare la propria situazione.

Pur con compostezza, Feuchtwanger racconta il dramma dell’adattamento a cose prima inimmaginabili: la perdita di ogni pudore durante l’espletamento delle funzioni corporali, la contesa di un pagliericcio striminzito da fingersi letto, la mancanza di acqua e l’impossibilità di mangiare in una tazza pulita, le infezioni emorragiche, la perdita di coscienza reiterata nelle preghiere di chi ancora crede e dal silenzio di chi, invece, privato della lucidità, non ha barriere da opporre alla deriva tragica a cui ha preso parte, la follia nel mito di Sisifo, a costruire cataste di mattoni al mattino per disfarle la sera, la castrazione chimica, mai raggiunta, con del bromuro sciolto nelle pietanze.

Nel campo il cosmopolitismo che Feuchtwanger sfrutta, per deformazione professionale, immagazzinando ogni informazione utile ad un romanziere, ascoltando molto e molto acquisendo, sui mestieri, sulle origini, sulle personalità e riproponendole nella forma di un ritratto preciso che delinea figure immalinconite dal comune destino dell’abbandono, ombre rinchiuse in un capannone ad aspettare che passino i bombardamenti, pezzi unici di una galleria umana che pare non avere certo neppure il futuro della morte.

Da Les Milles, con l’avanzata delle truppe tedesche in Francia, la necessità di fuggire dal campo per non finire preda delle torture naziste. Il viaggio della speranza rinchiusi nel treno della disperazione che li porterà, quelli che sopravviveranno, all’accampamento tendato di Nîmes. I pochi barlumi di libertà dentro ai campi e sotto un cielo aperto di notte, gettati su un prato anziché sugli scaffali della fabbrica di mattoni, sono raccontati come oasi nel deserto, il terrore di essere intercettati dai tedeschi sempre sospeso sulle loro teste.

E poi, le notizie tanto attese delle loro donne si fanno strada nel passaparola generale. La moglie di Feuchtwanger con un escamotage lo raggiunge al campo tendato, lui ormai irriconoscibile, alienato dai mesi di internamento, non coglie gli espedienti che lei escogita per farlo uscire. Solo grazie all’intervento di alcuni diplomatici americani, opportunamente camuffato da anziana signora, l’autore in incognito lascerà Nîmes per sempre, per imbarcarsi in Portogallo, diretto negli Stati Uniti.

Di tante considerazioni, una su tutte, ed è che il coraggio si esprime sotto diverse forme, c’è il coraggio fisico e il coraggio della parola. A volte le due versioni viaggiano su binari paralleli e non si incontrano, ma entrambe contribuiscono a conservare la vita, appigli nascosti sulla verticale imprevedibile che il destino ci mette davanti, quando si è di tutti e di nessuno perché di documenti che attestino un’appartenenza non ce ne sono o, peggio ancora, non ce ne sono più.

Per la prima volta pubblicato in Italia da Einaudi editore, è fruibile nell’eccellente traduzione di Enrico Arosio.