Una rabbia che non concede nulla.
Tra le macerie di una vita andata prematuramente alla deriva, Mattia Insolia fa muovere i suoi personaggi. Paolo e Antonio sono due fratelli tenuti insieme dall’indigenza. Loro padre è morto con la testa fracassata da un televisore cadutogli addosso mentre era ubriaco e la loro madre li ha abbandonati cinque anni prima, quando erano solo due bambini. Le loro giornate sono ammorbate da apatia e caos mentale, tutto è fuori posto: colonne di piatti sporchi lasciati ad ammuffire nel lavandino, sdraio sfondate e arrugginite al posto del divano, un manico di scopa posato sul davanzale della finestra per cambiare canale al televisore, il giardino invaso dalle immondizie, discarica a cielo aperto, disfacimento di un’infanzia bruciata dentro ai margini slabbrati di un paesino del sud Italia.
Immersi nel disagio e nell’anonimato, i due fratelli tirano avanti come possono: Paolo lavora come manovale, incapace di rispettare gli orari di cantiere, rischia il licenziamento ogni giorno e Antonio, che ancora studia, lascia che a mantenerlo sia proprio il fratello. Ad emergere è il disinteresse per una vita che non può essere cambiata, la rassegnazione, odiosa, che, per quanto ci si sforzi, ogni tentativo di andare nella direzione giusta sia inutile. Al continuo accumulo di cianfrusaglie e rifiuti, su cui si riversano le nottate alcoliche e di baldoria dei due ragazzi e dei loro amici, fa eco un accumulo emotivo ingovernabile, che li porta sull’orlo di un baratro fatto di violenza inaudita, spregio per se stessi e per la vita, psicotici scoppi d’ira e incapacità intellettive.
Ad affamarli lo spettro opprimente di un’ingiustizia di fondo, in principio solo subita, trasformatasi in colpa con l’avanzare degli anni, e l’aggressività passiva di chi accusa la società per tutte le sue disgrazie. Paolo vuole essere come il martello pneumatico che usa per bucare l’asfalto, al di sopra di ogni rumore, lontano da ogni ragione, dissociato nel suo bisogno di sazietà, irrefrenabile nella sua deriva efferata, incarnazione di una rabbia che percuote, ottunde, perfora, sfigura. Dei due fratelli è Antonio che tenta, per quel che può, di darsi un contegno, logorato dall’assenza e dal disinteresse, compromesso da un senso d’inferiorità che si infiltra ovunque, anche tra le pieghe di un’amicizia decennale con un ragazzo borghese, e sempre lui è l’elemento che potrebbe – forse – scardinare il meccanismo distruttivo che gli si sta rivoltando contro.
Gli elementi ci sono tutti: giovani scapestrati governati dalla voracità per un’affermazione sociale che non arriva, male di vivere, psicosi, violenza incontrollata, cannibalismo mentale, situazioni che si avvitano su se stesse, fraseggio netto che incalza pur aprendosi in spiragli, veri concentrati di poesia urbana. Gli affamati di Mattia Insolia potrebbe benissimo essere annoverato tra quei titoli che appartengono al fenomeno letterario del Cannibalismo italiano, sorto alla metà degli anni Novanta – Fango di Niccolò Ammaniti, Superwoobinda di Aldo Nove, Bastogne di Enrico Brizzi per citarne alcuni – in cui a dominare la scena sono il pulp, l’orrore, la brutalità, il realismo più crudo.
Irredimibili davanti allo sgretolamento di una realtà moribonda, Paolo e Antonio azzannano allora tutto il possibile, ebbri di un istinto che li rivolta, ululanti alle stelle.
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