Ho fatto la spia – Joyce Carol Oates

Di Violet e di una vita che non si spezza.

Non si smentisce Joyce Carol Oates, regina del thriller psicologico, con questo suo ultimo, miracoloso romanzo. Gli standard a cui l’autrice statunitense ci ha abituati si mantengono alti per tutta la poderosa mole del racconto in cui a parlare è Violet Rue, figlia minore di una cucciolata di sette fratelli, cresciuti rumorosamente in una famiglia proletaria di irlandesi trapiantati in America, nella provinciale South Niagara. L’infanzia di Violet, che al momento degli avvenimenti ha dodici anni, cresce musicale come il suo nome, eppure le ombre sottintese, appena intraviste, fin dalle prime battute sono molteplici: si capisce che Violet è la preferita del padre proprio perché è la più piccola e che in virtù di questo ha spodestato dal piedistallo la sorella maggiore, e lascia presagire l’ambiguità paterna, ben lontana da un auspicato ideale protettivo, affidata piuttosto ad un istinto ferino che si muove sull’onda di un codice d’onore interiorizzato e di un senso del possesso che brutalizza. Poco propensi ad utilizzare il parlato, i genitori e i fratelli di Violet sono caratterizzati da ciò che non viene espresso: la violenza dei maschi, bulli scalmanati cresciuti a cazzotti inseguendo il mito di una virilità cieca, fatta di solida ferocia e indiscutibile supremazia e il disagio femminile, un inevitabile spegnimento programmato di ogni afflato vitale, soffocato da una vita domestica ai limiti della miseria e del decadimento fisico dovuto ad un’istancabile opera di procreazione. Il padre, tubista e carpentiere di fortuna, usa le maniere forti coi figli, li picchia – sì, ma mai con la mano chiusa a pugno, sminuisce Violet – e li demolisce, facendoli sentire inadeguati perfino quando leggono un libro; la madre, palesemente vittima di se stessa, è un’aggressiva passiva che incolpa i figli per l’infelicità e il fallimento della sua vita, salpando per una deriva mentale fatta di iperboli e bugie. Cosa porti Violet a non affogare nelle acque scure e melmose della famiglia che le è toccata in sorte non è dato saperlo, ma è un fatto. La piccola osserva, da una distanza che le è innata, il tumulto estraneo di genitori e fratelli nello stesso modo in cui osserva il fiume “puzzolente” e “del colore di una melanzana marcia” sopra cui passa ogni giorno per andare a scuola. Le rimane impresso nella mente – questo avrei ricordato – , così come il destino di essere nata Kerrigan e di essere stata testimone di una scena che getta improvvisamente una luce assassina sui suoi due fratelli maggiori, Jerome Junior e Lionel.

A troncare di netto la relativa spensieratezza di Violet è il brutale pestaggio di un ragazzo di colore, Hadrian Johnson, giovane promessa del softball maschile della squadra del South Niagara Junior Chamber, aggredito di notte, ai margini di una strada e lasciato a morire con la testa spaccata – una ragazzata, e per una ragazzata, questi ragazzi potrebbero vedersi rovinata la vita -, imputando alla vittima dell’atroce sevizia, la colpa di esistere e perfino di aver osato morire. Quella stessa notte, la piccola, allo scuro di tutto, assiste ad una conversazione ambigua tra i suoi fratelli intenti a ripulire rozzamente una mazza da baseball. Jerome e Lionel si accorgono della sua presenza e, qualche giorno dopo – Ti stava aspettando. Lo sapevi –  la piccola ha un incidente sul ghiaccio: spintonata da Lionel, picchia violentemente la testa, spaccandosela.

“Via, Va’ all’inferno, topaccio! Non avrai altre occasioni per fare la spia. È vero, non ti sarà data un’altra occasione. C’è solo quell’unica, la prima.”

E Violet si lascia scappare la verità, febbricitante, ma ancora viva, abbandonata a se stessa da una famiglia impegnata a salvaguardare il proprio nome e a scagionarsi dalla giusta infamia che l’accusa le riversa addosso, riconducendo il delitto ai due fratelli Kerrigan senza averne avuto, fino ad allora, la prova schiacciante. Da quel momento la piccola, declassata da prediletta di papà a viscido topo traditore, irriconoscente parassita a cui per grazia è stata data la vita, e a cui solo per grazia, ancora, è concesso di vivere, viene allontanata da casa e, raggiunta dall’implacabile giudizio del padre che la marchia per sempre con lo stampo del disonore, abbandonata alle cure di una zia senza discendenza. Invisa a tutti, Violet, che nel cuore serba l’ingenua speranza di potersi discolpare e di tornare prima o poi all’affetto ora lacerato dei genitori, cresce allora secondo nuove declinazioni di disagio familiare e sociale, dentro ad una spirale che fino alla fine lascerà tutti in apnea.

Eterna reietta, perseguitata da un destino di omertosa ignoranza, la ragazza attrae a sé la violenza opaca di uomini senza pudore né vergogna, dediti all’abuso sessuale e alla prevaricazione, ben nascosti dietro una facciata di rispettabilità sociale ed economica. L’originalità, forse un pò impietosa, di Violet risiede nella sua incapacità di sottrarsi alla corrente del fiume grigio in cui è nata e in cui continua a nuotare, occhi spalancati sia sull’orrore, mai concepito, che sulla negazione di esso.

La grandezza del personaggio e della Oates risuona, instancabile e nitida, in ogni pagina del romanzo, sferzante affresco di una provincia ammalata, chiusa nella ristrettezza di un piccolo, livido, mondo familiare da cui è – quasi – impossibile trovare scampo.