C’è un filo rosso che sostiene tutto il discorso di D. Hunter in Chav, ed è quello della solidarietà tra coatti – dove per coatto si intende la feccia, il criminale, l’irrecuperabile scarto umano che vive per strada campando si espedienti -, istituzione primitiva, antecedente ad ogni forma di sfruttamento capitalistico e conformazione ad un sistema socio-economico ingiusto, accanito carnefice di un sottoproletariato indifeso nella propria incontrastabile ignoranza a cui viene addebitata per intero la colpa del proprio fallimento. Da questa condizione di reietto, Hunter parte per raccontare la propria storia, sfruttando la forma del memoir in cui a tratti si infiltra il saggio politico e filosofico, supportato dall’immediatezza di un linguaggio scevro da orpelli, in empatia con la natura brutale degli abusi che ha subito, squarcia fin dalle prime righe l’ingenuità di chi pensa di sapere come si viva per le strade senza mai esservi stato costretto.
La sua è una vita bruciata, consumata da una sofferenza mentale che supera l’immaginabile: una madre stuprata e abbandonata, ritrovatasi a dormire in una macchina coi quattro figli per sfuggire alla violenza domestica e a prostituirsi sul cofano di quell’abitazione di fortuna per sfamarli e un’infanzia moribonda, trascinata attraverso furti, riformatori, carceri, tossicodipendenze e violenze sessuali. In Hunter è il prepotente dramma del fallimento ad innescare la rabbia furibonda che lo mantiene in vita, generando un inconsapevole istinto di conservazione e appartenenza ad un gruppo di invisibili, odiati, bistrattati che diventa l’emblema di una solidarietà cieca, agita più che pensata.
Il viaggio nell’abisso della miseria più nera diventa sopportabile solo per abitudine e, dopo che la madre lo fece prostituire per racimolare qualche soldo, Hunter decide di affrancarsi e sfruttare la propria capacità di estraniarsi e tollerare il dolore per immettersi nel mercato del sesso, da quel momento ne vedrà d’ogni: poliziotti fuori servizio, transessuali frustrati, depravati intrisi di sadismo. Unica sua assicurazione sono i colleghi di sventura, ragazzini come lui, infranti, zeppi di dolore, disperati guerrieri senza insegna il cui codice d’onore è scritto nel patrimonio genetico. Sono loro a soccorrerlo dalle percosse e a controllare che ritorni dagli incontri coi vari clienti. Sono loro che a vicenda rammendano i brandelli di una vita presa a calci.
In questo folle lancio contro il muro della sanità mentale, Hunter – che quella barriera la oltrepasserà – dopo trent’anni di bassifondi riesce a disintossicarsi e a recuperare il proprio io prosciugato. All’istruzione, ma soprattutto alla possibilità di averne una – Hunter rimarca il fatto che se fosse stato un ragazzo di colore non avrebbe avuto alcuna chance – è affidato il merito di aver compiuto una ricostruzione insperata. Da questa distanza ormai raggiunta l’autore, ormai quarantenne, rivede il proprio percorso, lo rivive, vi affonda, consegnando alla parola la capacità di salvare, salendo dalle profondità di un orrore inevaso, le esistenze di chi quella disperazione la incarna.
È il sistema che ha snaturato l’uomo e ha creato la massa analfabeta aizzando poveri contro poveri perseverando con una propaganda di odio razziale e di falsi miti consumistici. Eppure il sistema trema davanti a queste ombre intossicate, indebolite, prossime ad uno sfinimento a cui tendono ma che, ormai assuefatte, non raggiungono più, guerrieri violati in ogni luogo tranne che in quello dove risiede l’aiuto reciproco.
Chav è il ritratto crudo e commovente di una fetta d’umanità prima ferita a morte e poi abbandonata con disprezzo, è la denuncia lucida di un sistema che crea mostri e li legittima contravvenendo ad ogni possibile etica.

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