È un graphic novel al cardiopalma quello che firma Maria Llovet, una storia pulp in cui il dialogo, quasi del tutto assente, è scalzato dall’imporsi delle vignette dove ad essere inquadrata è l’azione compiuta al secondo, sia essa l’accoppiamento ferino di due tossici senza speranza, lo squarcio aperto all’improvviso nella gola di una dominatrice perversa, o il dissanguamento impietoso dell’ignara preda di un nosferatu.
Il Loud è uno strip club, un locale notturno che tracima di nefandezze e personaggi usciti dalla bocca dell’inferno: ributtanti pedofili, vampiri impazziti, folli sadici e drogati senza speranza, tutti accalcati a formare una massa indiavolata in cui sesso e violenza si mescolano senza pausa. La vicenda è affidata al rumore che, assordante e ossessivo, viene restituito dalla Llovet ingrandendo un corposo maiuscolo piazzato ovunque nella scena, campeggiante, a coprire tratti di sfondo e personaggi, poderoso elemento di disturbo volto ad esasperare una situazione di alterazione mentale già ampiamente fuori controllo, spinta all’omicidio. Il lasso temporale scaturisce dalla gamma del blu, del viola e del verde elettrico, ambientazione notturna al neon, resa allucinata di un punto di non ritorno. A braccare questi demoni fatti, al limite dell’overdose, una coppia di giustizieri di stampo tarantiniano, lama a portata, grilletto facile e romanticismo grezzo.
Il segno grafico della Llovet unisce le atmosfere cupe e inquietanti di Miller e la sensualità di Crepax, richiamando l’efferatezza muta dei delitti del Tamigi o dello squartatore di Londra delle prime storie di Dylandoghiana memoria.
Il Loud è un posto maledetto che inghiotte vite e speranze, il genere di locale adatto a chi, comprando il biglietto, sa di pagare il pedaggio ad un traghettatore dissennato e sleale che userà quei soldi per l’ennesima dose letale.

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