Perché il bambino cuoce nella polenta – Aglaja Veteranyi

È una forma atipica quella in cui Aglaja Veteranyi decide di scrivere quello che sarà il suo più celebre romanzo; in bilico tra memoir e poesia in prosa, Perché il bambino cuoce nella polenta, racconta di un’infanzia vissuta in mezzo ai sogni spezzati di una famiglia circense in fuga dalla Romania di Ceausescu.

La piccola protagonista, identificabile con Aglaja, imprime sulla pagina il trauma di una vita che non trova il tempo di ricominciare, trascinata senza tregua per luoghi che non potranno mai chiamarsi casa, sostenuta più dalla sua fantasia che dalle attenzioni di una famiglia di artisti nomadi al limite dell’anaffettività.

Il padre è un clown triste, un acrobata che sale sulla fune solo da ubriaco, prodigo di botte, la madre è la donna dai capelli di acciaio che si fa appendere per la chioma e rimane sospesa nel vuoto, lasciando sospesa, insieme alla propria vita, anche la figlia terrorizzata, e la sorella, che è figlia solo del padre e ne diventa l’ossessione, riveste spesso il ruolo lasciato scoperto dalla madre. La sola cosa che può distrarre la piccola dai continui mantra di morte è la favola del bambino che cuoce nella polenta, un racconto a tinte scure che viene ripreso più volte nel libro con finali trucidi e sempre diversi, catartico nel suo continuo mutare.

La piccola non può affezionarsi a nulla, non ad una terra che ha infranto la sua famiglia come fosse vetro, non ad una lingua che stenta ad imparare. L’unico affetto stabile è quello per la madre, affetto che la costringe a dormire il più possibile per accorciare le ore di angoscia tra uno spettacolo e l’altro.

La progressiva disgregazione della famiglia porta le due sorelle in un collegio svizzero dove la madre promette di andare a riprenderle presto, ma la solitudine passa prima e quando il padre arriva per portar via solo la più grande, la piccola deve continuare il gioco della sopravvivenza da sola, la sua unica bambola a farle da sorella e madre.

Bisogna abituarsi all’inferno, bisogna abituarsi all’andirivieni di una terra che non può accogliere, bisogna abituarsi e forse si potrà riprendere un cammino, si racconta la piccola, con la compostezza che solo lo sguardo coraggioso e senza filtri di un bambino possiede.

“Non grido. Ho gettato via la bocca”

Intanto, al bambino che cuoce nella polenta scoppiano gli occhi e Aglaja cresce alla rovescia, la madre si ripresenta più disforica che mai e con lei tornano le esibizioni, stavolta in un locale spagnolo in cui ad esibirsi è la piccola.

Perché il bambino cuoce nella polenta è in definitiva un unicum letterario, autobiografia di un’infanzia trascorsa sul filo di una corda tesa tra una patria che minaccia di morte e un’Europa che non accoglie, la cui origine è il pensiero puro, netto, a tratti aforistico di una bambina di tredici anni che per urlare sulla pagina usa il maiuscolo, che solleva lo sguardo al tendone del circo come ai soffitti di un istituto svizzero o di un night-club di Madrid sostituendoli al cielo, che sogna la nonna morta e la cinepresa sbagliata del padre, lei, figlia di acrobati, destinata a compiere un’acrobazia inedita, senza reti di sicurezza o guide, per non cadere nel baratro di una vita che fa invidia al più complesso esercizio di giocoleria.

Aglaja Veteranyi ha scritto quello che senza timore può essere definito un piccolo capolavoro letterario, riportato all’attenzione del pubblico da Keller nella bella traduzione di Emanuela Cavallaro. Duole il fatto che l’autrice si sia tolta la vita nel 2002, gettandosi nel lago di Zurigo, diventando parte di quella favola gotica che tanto amava raccontare.