J. è una donna di mezz’età, è reduce da una serie di rapporti sentimentali che non l’ha portata da nessuna parte, se non ad un divorzio e, quel che è peggio, non ha figli.
Di ritorno da una vacanza conclusasi con l’ennesima delusione amorosa, si ritira nel suo residence di Miami, un posto perfetto per osservare le cose dalla giusta distanza.
Le sue giornate sono scandite dalle telefonate alla madre, da qualche scambio di battute coi vicini, da lunghe camminate e dalle traduzioni delle Metamorfosi di Ovidio dentro a cui, J. cerca se stessa, tentando di dare una risposta alla domanda se sia possibile fuggire dall’amore romantico – quel tipo di amore che, inevitabilmente, generando aspettative, sottopone al rischio della delusione.
Inizia così per J. – che ragionevolmente può essere identificata con l’autrice stessa – un percorso di ricerca, in cui il limite tra prosa e poesia è a malapena distinguibile, che porta alla composizione di un diario: pagine che alternano l’immediatezza delle annotazioni prese al volo a riflessioni più strutturate in cui l’elemento biografico e quello puramente narrativo, intersecandosi in punti impercettibili, danno vita ad un ordito brillante, che schiarisce e lacera al tempo stesso.
Attraverso lo studio dell’opera di Ovidio, J. individua una chiave interpretativa che possa valere come risposta alle sua esistenza. Tutte le donne di cui narra il poeta, prede e vittime dell’amore ferino di un dio, trovano il modo di scappare da questa bestialità tuffandosi dentro la terra, trasformandosi in alberi, diventando altro da sé, eppure realizzando la loro vera natura, quella forma sotto cui possiamo vederle ancora oggi… è così che anche lei, allora, che anche J. troverà la pace?
Come dice la sua enigmatica vicina di casa: “Fuggire dall’amore è fuggire dalla vita”.
Eppure qualcosa non torna…
J. sta veramente fuggendo dall’amore, oppure esercita un tipo di amore differente da quello che ci si aspetterebbe da una donna della sua età, colta, benestante ed avvenente?
Immersa in un isolamento che ha sempre meno a che vedere con la solitudine, J. elabora una risposta che tradisce la possibilità di una speranza.
“Meglio sole che nuvole” è dunque un romanzo-diario di incontenibile bellezza, un’opera letteraria che a tratti si inabissa e a tratti si eleva nelle e sulle fragilità di una donna che ama anche in forza del suo passato.
Perché J. ama, ama la madre malata, ha amato (e forse amerà per sempre?) il marito da cui si è separata, ama il suo vecchio gatto cieco e malandato a cui ha imparato a cambiare i pannolini, e allo stesso tempo si chiede se tutto questo sia abbastanza, se tutto questo sia accettabile e se il motore della vera metamorfosi non sia il tempo, che sublima e trasforma ogni cosa.
La penna della Alison affonda con grazia e umanità nel tangibile e vi scova una verità che lascia spazio alla possibilità, come un’immagine che si fa intuire sul fondo di un bacino d’acqua prima di essere catturata. Le parole che l’autrice sceglie sono volte a comunicare con forza un’intimità, una ricerca profonda, e non una di esse compare nel testo senza che abbia il suo peso, pietre preziose incastonate nei punti salienti di un cammino, stelle polari che brillano ad indicare la strada percorsa.
In questo contesto, così finemente articolato e modellato, è da menzionare la bella traduzione italiana curata da Laura Noulian, che paragona il lavoro compiuto sulla Alison al solcare l’Atlantico su un veliero.
E, se di qualcosa si può dire sia permeata la scrittura di Jane Alison, allora quel qualcosa è l’acqua, di un “blu da capogiro”, profonda e intima, proprio come una donna.
“Ovidio, sei ancora qui? Mi piace pensare di vedere i tuoi occhi. Mi piace pensare di udire la tua voce. Sento le tue frasi che nuotano dentro di me, i tuoi personaggi che percorrono le lande selvagge dei boschi, e l’aria, e le lettere, e il tempo. L’idea che le tue parole possano essere morte, che il passato non sia sempre il presente. Ma prova a dire questo alla sabbia, al mare”