Sarebbe sbagliato giudicare un film in base al libro e viceversa, eppure ogni volta che esce un film tratto da un romanzo famoso il paragone viene naturale.
L’altro giorno ho visto l’ultima trasposizione cinematografica di IT di Stephen King, e l’ho vista dopo una lunga attesa, carica di aspettative, in una delle più belle sale cinematografiche dei paraggi, in posti che avevo prenotato con largo anticipo perché fossero i più comodi, i più performanti. Tutti questi preparativi indicano con chiarezza quale fosse il mio livello di coinvolgimento: estremo.
Quando le luci in sala si sono riaccese nella mia mente ho risposto a due domande: Mi è piaciuto il film? Sì, moltissimo. È diverso dal libro? Sì, molto.
Il film di Muschietti punta molto sulle atmosfere gotiche e sul format, ormai collaudatissisimo, del gruppo di perdenti alla Goonies o alla Stranger THings, uno degli attori di It, il ragazzino che veste i panni di Richie Tozier, è anche protagonista della serie televisiva di Netflix – più citazione di così si muore! – , ed è soprattutto questo che risalta: una storia di amicizia e crescita mentre sullo sfondo traballa la città dell’infanzia universale: Derry, il luogo infestato da cui per sopravvivere bisogna affrancarsi, la città omertosa, fatta di vicini inquietanti e vigliacchi, di padri e madri lividi, cerebralmente maciullati, persi nel loro orrore privato, sagome ondeggianti sullo sfondo che irrompono sulla scena per ferire mortalmente i propri figli, con la loro incapacità di sentire, di agire, con la loro impossibilità di essere migliori.
Questa versione di IT è vessillo di ribellione adolescenziale e Pennywise, il pagliaccio ballerino, è forse la forma più inquietante che l’orrore assume nel mondo reale: è l’ostacolo da superare per diventare grandi. Non importa in che periodo storico il film sia ambientato: la miniserie del 1990 lo ambientava, fedele al romanzo, alla fine degli anni 50, questo capitolo è ambientato, invece, negli anni 80, ma il senso non cambia di una virgola, anzi, crea nello spettatore che – come me – in quegli anni ci è cresciuto, un senso di speciale esaltazione, di riconoscimento – una menzione speciale va alla colonna sonora che spazia dai Cure ai Siouxie and the Banshees – , di comunione coi protagonisti.
Epica la scena di Georgie, il piccolino che per primo vedrà il pagliaccio affacciarsi al tombino in cui l’acqua piovana ha spinto la sua barchetta di carta, il primo che vedrà gli occhi bestiali, gialli e feroci del male, l’innocenza che incappa nel lupo cattivo, come prima o poi accade a tutti. Il punto di vista che ci offre Muschietti è però diverso: più alto, Pennywise è macabro nella sua mancanza di sarcasmo, non attira il bambino in una trappola per divertimento, ce lo attira perché obbedisce ad una sua natura bestiale, ancestrale, primitiva, impietosa.
IT è il male sordo, sfrutta le paure delle vittime per prendere una forma, per poter esistere ha bisogno delle sue stesse vittime e Derry, la città intera, è, a conti fatti, vittima innanzitutto di se stessa e questo è un altro punto di contatto, basilare, tra film e romanzo.
Sul film: belli gli effetti scenici, la fotografia, le ambientazioni lugubri, tetre al punto giusto, ottima l’interpretazione di Skarsgard nel ruolo di Pennywise, cattivo, senz’anima, animale famelico e inarrestabile, spietato come solo un essere privo di coscienza saprebbe essere -peccato per i denti da castoro.
Bravissimi anche gli interpreti principali che rendono perfettamente le caratteristiche dei The Losers, Eddie facile agli attacchi di panico, vessato dalla madre iper-apprensiva, Mike, ragazzo di colore emarginato, qui orfano di entrambi i genitori, in bilico tra l’essere agnello o macellaio, Stan, forse qui il meno caratterizzato, razionale e ordinato, è quello che ha la paura “migliore”, quella che più mi ha spaventata, Richie, istrionico e animatore del gruppo – una delle battute migliori del film porta la sua firma -, Bill, che qui non tartaglia molto e che riveste più il ruolo di capo branco, Ben – su cui ci si sofferma un po’ poco, peccato -, il ragazzo obeso ma anche, il poeta, il lettore accanito, quello che si innamora subito di Beverly e Beverly, che qui ha già tutte le prerogative dell’eroina, piuttosto che della ragazzina in difficoltà, abusata dal padre.
I personaggi del libro nel film è come se si emancipassero e mostrassero un lato più contemporaneo, la possibilità, insomma che IT, in tutte le sue manifestazioni, – quello meravigliosamente astuto, ironico e sottilmente inquietante interpretato da Tim Curry è apparso l’ultima volta 27 anni fa, sarà un caso? -, sia tornato e continui a tornare, diffondendosi come un male incurabile dai luoghi alle persone, e qualcuno dovrà fermarlo. Non tanto l’orrore qui, ma l’umanità.
L’età dell’innocenza è finita, ora si aspetta il secondo capitolo per sapere come andrà a finire.
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