Era da qualche giorno che avevo preannunciato l’arrivo, su questo mio blog, della recensione di un libro che mi ha fatto tremare per la bellezza delle parole con cui è scritto e per ciò che con quelle parole l’autore ha voluto e saputo esprimere.
Eccolo qua: “Bianco su nero” di Rubén Gallego.
Si tratta innanzitutto di una storia vera che è anche, però, una straordinaria storia di lotta, di coraggio, di sopravvivenza e di amore e il fatto che l’autore parli proprio di se stesso, soffermandosi maggiormente sui suoi primi anni di vita, trascorsi passando da un orfanotrofio ad un altro, nella Russia degli anni Settanta e Ottanta, la rende ancora più toccante.
Il libro non è solo un’opera che trasmette una bellissima storia, ma è anche un capolavoro di scrittura.
Lo stile che Gallego sceglie per raccontare di come sia riuscito, lui, piccolissimo, abbandonato e con gravi deficit fisici, ad aggrapparsi alla vita senza mai mollare, calza a pennello con i modi di un bambino: conciso, breve, prepotente, fatto di frasi semplici e dirette ma profondissime per significato: delle verità che arrivano dritte al cervello di chi legge.
Sembra di vederlo, questo ragazzino, in ogni riga che l’autore compone sulla tastiera del suo portatile – Gallego scrive questo lavoro, infatti, utilizzando esclusivamente l’indice della mano sinistra, la sola che riesce ad usare per digitare; con la destra, invece, ci comunica divertito di essere in grado di tenere stretto un cucchiaio e di servirsene per mangiare.
I personaggi che l’autore descrive sono figure che, sulla scena, risultano essere forti tanto quanto il piccolo Rubén, perché si rifanno a persone vere, veramente esistite e rivestono ruoli che spaziano dal tragico, all’ironico, al comico: dalle insegnanti mendaci e spietate, alle inservienti compassionevoli ma ignoranti, agli altri orfani menomati che dividono col protagonista quegli spazi infestati dal gelo, che però riscaldano, procurando occasioni per fare festa e scherzare, arrivando a sdrammatizzare perfino sulla loro stessa sorte.
Di tutto si tratta, dunque, fuorché di una storia scritta per impietosire, ed è così che l’autore ci sorprende!
Gallego racconta di sé e dei suoi problemi – a volte era costretto a strisciare per muoversi o a stare su una sedia a rotelle piuttosto che in un letto, cosicché anche arrivare al bagno in tempo poteva trasformarsi in una vera impresa – come di una condizione accettata, sulla quale egli non si sofferma più, non esistono compatimenti, esistono fatti, e al lettore rimane impressa solo una chiarissima immagine di forza e dignità.
La sua è semplicemente, perché è così che ci viene presentata, ed è così che viene condotta dall’inizio alla fine, una storia che andava raccontata, e Gallego ci riesce eccome, tirando giù il bersaglio con un colpo solo.
“Capita spesso che si debba essere forti. E buoni. Non tutti sono capaci di oltrepassare la barriera dell’incomprensione generale. Troppo spesso la bontà passa per debolezza. Ed è una cosa triste. Essere uomini è difficile, difficilissimo, ma è assolutamente possibile. E per riuscirci non serve fare gli animali ammaestrati. No, che non serve. Ne sono convinto”
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